La medicina e la chirurgia dei Romani

All’inizio era il pater familias a curare i propri familiari ed i propri schiavi, come Catone riferisce nel “De medicina domestica”. Poi l’assistenza ai malati ebbe luogo, come già in Grecia, presso i valetudinari, le medicatrine ed i templi.
I primi, puramente romani, erano grandi edifici privati, situati in campagna; vi lavoravano medici, infermieri e donne (come ostetriche). In città invece erano collocati presso le palestre quelli che servivano per curare gli atleti infortunati e presso gli accampamenti militari quelli invece destinati ad assistere i soldati malati o feriti. Inizialmente i militari erano curati da medici pubblici che seguivano gli spostamenti dell’esercito; poi Augusto diede ai medici militari (ormai inquadrati nell’esercito) il titolo di “principale”, sottufficiale, sottoponendoli agli ordini del primario dell’accampamento (medicus castrensis).


Strumenti chirurgici

Le medicatrine si affermarono a Roma verso il 290 a.C. ove si chiamavano anche Tabernae medicorum. Il malato veniva curato privatamente presso la casa del medico che riceveva i malati nel suo laboratorio per ricoverarli poi, se necessario, in stanze annesse alla sua casa. Anche i templi fornivano assistenza ai malati; in occasione della peste, che colpì Roma nel 292 a.C., fu eretto un tempio dedicato ad Esculapio presso l’isola Tiberina ove venivano curati i malati dai sacerdoti.

Questi tramite “l’incubazione” mentre dormivano ricevevano dal dio il suggerimento di come curare questo o quel malato a cui somministravano come terapia: miele, cenere, vino e sangue di gallo bianco (sacro ad Epidauro). I malati guariti ringraziavano il dio con offerte votive. Nella Roma repubblicana e nel primo impero, solo i ricchi potevano ricorrere ai medici, abbastanza costosi essendo molto pochi. Il povero si rivolgeva ad individui maghi-sacerdoti che, per curare una malattia, esercitavano pratiche più o meno magiche; si credeva infatti che fossero gli dei, offesi dal comportamento umano poco rispettoso nei loro confronti, a mandare come punizione le malattie.
Per ottenere il perdono divino ci si rivolgeva quindi ai sacerdoti offrendo in cambio vittime sacrificali, preghiere ed ex voto di terracotta. Molte malattie erano curate con degli estratti di erbe (Plinio il Vecchio, Galeno, Catone e Celso lo testimoniano nelle loro opere) posti in vendita in boccette di vetro.


Strumenti chirurgici

Ma anche gli animali servivano per curare. La bile della vipera era utilizzata per ottenere un collirio contro il bruciore degli occhi; lo sterco di cavallo o di asino, misto ad aceto, era usato come antiemostatico (lo stesso scopo si otteneva con impacchi con peli di lepre).
La conoscenza anatomica dei Romani era però di gran lunga inferiore a quella proverbiale degli Egiziani che, dovendo praticare l’imbalsamazione, conoscevano il corpo umano e proprio per questo i medici più “quotati” erano quelli di origine egizia.

Gli strumenti chirurgici erano di bronzo: il bisturi (chiamato scalpellum), la tenaglia, la sonda auricolare, la pinza, la sonda a spatola, la sonda a cucchiaio, la spatola. Non era praticata la anestesia e, non conoscendosi la penicillina e gli antibiotici, frequenti erano le infezioni postoperatorie con successiva cancrena e decesso. La trapanazione del cranio, già praticata nell’antico Egitto, si faceva anche a Roma con il trapano a corona o a trivella. Si operava per migliorare il naso, le palpebre, le labbra, gli orecchi e persino il labbro leporino (pratica Celsiana ancora attuale).
Le emorroidi e le varici erano legate e cauterizzate; per ridurre le fratture e le lussazioni degli arti si legava il malato sul letto, si eseguivano manovre di forza, poi si steccava e si bendava. Se la frattura era troppo esposta allora si amputava. I tumori al seno erano operati, così come le fistole anali e addominali. In prossimità del parto, la partoriente veniva fatta sedere su un sedia o sulle ginocchia di un’altra donna; si praticava anche il taglio cesareo ma sempre sulla donna appena deceduta (secondo la legge di Numa Pompilio). Il neonato, così nato, riceveva il nome di Cesare. Le pratiche per provocare un aborto erano diverse: sottoporre la donna a sforzi fisici continui e stressanti, a salassi ed a bagni molto caldi, a mangiare un miscuglio di assenzio, lupini e bile di bue. Per prevenire invece gravidanze indesiderate si chiudeva l’utero con sostanze grasse, unguenti e lana impregnata di grasso.

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