"Intérieur d'une chapelle de l'église de Saint-François à Tivoli" di François-Marius Granet

a cura di Roberto Borgia

François-Marius Granet (Aix-en Provence, 17 dicembre 1775-21 novembre 1849), figlio di Jean-Étienne Granet (1746-1796) e di Anne Magdeleine Durand, dopo aver studiato nella città natale, prima copiando le incisioni della raccolta del padre e poi con il paesaggista e miniaturista svizzero Abraham Constantin (1785-1855) si trasferì a Parigi, dove ebbe per amici Anne-Louis Girodet de Rousy-Trioson (1767-1824), il vincitore del Prix de Rome nel 1789 con la tela "Giuseppe riconosciuto dai fratelli" ed il più famoso Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867), il maggior esponente della pittura neoclassica, lavorando anche nello studio di Jacques-Louis David (1748-1825) presentato dall'amico d'infanzia Louis Nicolas Philippe Auguste de Forbin (1779-1841), pittore e romanziere. Dal 1802 al 1824 visse nella capitale pontificia, dove dipinse molte opere antiche e fu ritratto con lo sfondo di Villa Medici in un olio del 1809 da Ingres, oggi conservato nel Museo Granet di Aix-en Provence.
Dalle sue lettere vediamo che in Italia si firmava anche come Granetto. Gli interni monastici sono soggetti che indagherà senza sosta fino ad arrivare alla massima espressione di questa tematica con la tela Coro dei Cappuccini, da lui dipinto in forse più di dodici versioni, fra cui quella del Metropolitan Museum di New York, tanto è vero che verrà conosciuto come "il pittore dei Cappuccini".
Il successo dell'opera fu tale che il francese venne riconosciuto come uno degli artisti più influenti nella Roma del primo XIX secolo e il suo atelier divenne punto di riferimento per gli influenti stranieri che giungevano nella capitale pontificia.


Ingrandisce foto "Intérieur d'une chapelle de l'église
de Saint-François à Tivoli"

Ricordo, fra l'altro la mostra di Roma a Villa Medici, dal 1 aprile al 24 maggio 2009, dove l'Accademia di Francia rese omaggio al pittore francese con una mostra che comprendeva circa cento opere (divise tra oli su tela ed acquerelli). Fu influenzato certamente dalla tradizione fiamminga ed olandese, ed ha avuto certamente il merito di aver interpretato in modo romantico la religiosità, mostrando un approccio particolarmente sensibile nel dipingere l'oscurità delle chiese, chiostri, monasteri e cripte per esaltare nella maniera migliore la purezza della fede.
Questo "Intérieur d'une chapelle de l'église de Saint-François à Tivoli", cm. 24,5 x 19, museo del Louvre a Parigi, non visibile perché estremamente delicato, è un disegno a matita di grafite, che prende vita grazie alle sole sovrapposizioni dei toni scuri dell'acquerello bruno e grigio e quelli chiari della luce.

La cappella rappresenta certamente un ricordo, poi messo sulla carta in quanto a S. Francesco non è distinguibile una cappella come questa raffigurata. Ma per la presenza dell'ampia finestra in alto, con le due figure appena abbozzate ai lati (S. Maria Magdalena, a destra dell'altare; Santa Chiara di Assisi, a sinistra) fanno propendere per un ricordo della terza cappella a sinistra della chiesa, chiamata proprio cappella di S. Francesco (già di S. Michele Arcangelo), la più bella della chiesa "per la delicatezza degli stucchi e la non modesta qualità degli affreschi, che pur non essendo elegantissimi, possono attribuirsi alla scuola degli Zuccari o ad artisti laziali di scuola romana pre-manieristica o tardo rinascimentale" (FRANCO SCIARRETTA, Viaggio a Tivoli, 2001, pag. 162). Il bagliore della luce, che filtra da una vetrata, delinea i profili dei personaggi, a partire dalla fine della fuga prospettica della composizione, dando luogo ad una solenne atmosfera di ombre e silenzio.
Granet ri scoprì questi ambienti intimi e nascosti che in una città luminosissima come Roma e naturalmente nei suoi dintorni, non erano stati indagati a sufficienza tantomeno non con l'attenzione che Granet riservò ai soggetti d'ispirazione medievale, e, alle soglie del XIX secolo, l'eredità settecentesca della pittura di rovine congiunta alla riscoperta del Medioevo, costituì senza dubbio il retroterra culturale immediato di un filone pittorico innovativo.

Questi soggetti lo attrassero in maniera straordinaria tanto che qualche mese dopo il suo arrivo a Roma nel 1802 andrà a segregarsi per un'estate intera nella seconda cripta di San Martino ai Monti: Roma è celata, coperta di secoli e di polvere, Granet perciò si rinchiude nelle cripte e nelle catacombe alla ricerca di un tempo remoto e già perduto. Eppure, accanto a questo tracciato che lo colloca tra i cosiddetti "pittori di storia", François-Marius Granet ne segue parallelamente un altro, inaugurato durante il suo lungo soggiorno nella capitale pontificia, dal 1802 al 1824: Granet scende in strada, nelle campagne, nei giardini, tra i monumenti di Roma, restituendo sulla tela ciò che i suoi occhi catturano attraverso la scelta di un tratto che dà spazio al colore e alla luce mentre sfugge la precisione delle forme.
Il termine adatto a lui sarà quello di "Flâneur", parola introdotta dal poeta francese Charles Baudelaire, che indica il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, parola non traducibile in italiano nel suo significato pieno. Il Flâneur è tipico per la sua esplorazione non affrettata dell'ambiente circostante e libera da programmi predefiniti, ed è tipicamente consapevole del suo comportamento pigro e privo di urgenza. E, dopo il ritorno in Francia, questo processo di smaterializzazione si evolve: a partire dal 1824, infatti, l'artista dipinge la bellezza della natura, immortalando Parigi e Versailles in paesaggi che diventano sempre più lirici ed elegiaci, quasi senza materia.

dicembre 2013

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