“Papà decio milite della C.R.I.”

La crocerossa è stato l’altro amore di mio padre; è stato un pezzo importante della mia infanzia; gravavo allegramente e spensieratamente intorno alla sede della crocerossa, di cui papà, come ho detto, era uno dei militi volontari; era la C.R.I. una grande famiglia; e di essa, papà decio era parte importante; ed io mi sentivo importante quanto lui.

Era il più caciarone, il più allegro, il più amico di tutti: La cri, come la chiamavano più semplicemente, aveva la sede in una vecchia chiesa sconsacrata a via palatina; vicina c’era piazza dell’erbe, dove si svolgeva il mercato del pesce; vicina anche la piccola edicola dei giornali (ricordo un ometto piccolo piccolo, un po’ curvo, che girava là intorno con pochi giornali in mano e gridava è uscita la punta…, espressione che non mi spiegavo, e di cui non seppi mai il significato; a fianco un ambulante vendeva lupini, e ci dava, con una lira, un cartoccetto pieno; quando papà aveva la lira da darci.

Dentro il locale, due o tre tavoli, un po’ di sedie, un piccolo bugigattolo/ufficio di presidenza, e un altro più piccolo per il custode; un telefono, necessario, un vecchio televisore a malapena funzionante, una radio telefunken dalle dimensioni esagerate (come erano tutte le radio di allora, impensabili ai giorni nostri).


Duomo di Tivoli

E mazzi di carte, francesi italiane/napoletane, una scacchiera per il gioco della dama e degli scacchi (ma si giocava solo a dama). Il custode era fausto carloni; si trascinava appresso per tutta la sala, forse a causa di una malattia (poliomielite?), la gamba destra; ed aveva anche la mano sinistra anchilosata e la teneva sempre attaccata al fianco (e ogni tanto se la massaggiava e se la sistemava con l’altra mano).

Lo ricordo burbero, poco paziente, specie con noi piccoli, ma era buono, e si faceva voler bene; era, carloni amico di tutti, con le sue lune storte, coi suoi sorrisi mai spontanei, mi sembra, ma forzati dalla sofferenze di cui portava i segni sugli alti zigomi, sul volto scavato.

Gestiva se ben ricordo, un piccolissimo commercio di caramelle (mi rammento di quelle al miele ambrosoli, di cui ero ghiotto), nel suo sgabuzzino in fondo, sulla destra, chiuso da una leggera porta di compensato; caramelle che servivano per le innumerevoli partite a carte tra i militi, che amavano la crocerossa come la propria casa. E giocando e chiacchierando (d’estate, di fuori ognuno si portava la sua sedia), e si facevano infinite discussioni vuoi di politica vuoi di sport, e si aspettava; potevano esserci chiamate per qualche servizio: malati da trasportare per e dall’ospedale, oppure qualche ferito in un incidente.

Là fuori c’era la famosa autoambulanza di cui ho già detto (quando non era parcheggiata la fuori, non so dove la tenessero…). Era questa una vecchia vettura militare, per quanto mi ricordi, mi sembra che fosse una studebaker color cachì, dono di non so chi o quale organizzazione assistenziale; ricordo le croci rosse grandi, sul tondo bianco, sui fianchi e sullo sportello posteriore; ne ero affascinato, ragazzino qual’ero…

Per i servizi non c’erano compensi alla disponibilità de militi; una volta ogni tanto, il presidente offriva loro una pizza. Avevo sette anni, poco più poco meno, e mio fratello ne aveva quattro. La sera stavamo, specialmente d’estate, fino a tardi da zia mimma, che abitava là vicino, in via tempio d’ercole, laddove c’erano le scalette di bruttaccidente; e là, passavamo le serate, i grandi a chiacchierare, seduti in strada al fresco, e noi piccoli a correre gridare nasconderci e trovarci. E sul tardi (le dieci, le undici, spesso mezzanotte) con mamma ci avviavamo per il ritorno a casa, e passavamo a prendere papà alla crocerossa; poi, mamma e papà sottobraccio, e noi davanti a correre a perdifiato, avanti e indietro avanti e indietro; via palatina, tappa ai cartelloni del cinecentrale: stallio e ollio, john waine; seconda tappa o i cartelloni del cinema giuseppetti: tyron power, gianni e pinotto, poi i pompieri, l’ ospedale, la porta dell’ospedale, il pratosangiovanni. Era così tutte le sere.

Alla crocerossa ci fermavamo sempre un altro poco; mamma si sedeva anch’essa fuori a prendere fresco, e noi ragazzi ancora a giocare; ché là, a piazza dell’erbe, c’erano i ragazzi che vi abitavano; e l’intesa era sempre facile.
A me piaceva però anche guardare quelli che giocavano a carte; da una parte, inginocchiato sopra una sedia, seguivo con attenzione le varie partite a pinnacolo o a ramino (i giochi con le carte italiane, tranne la stoppa, non mi interessavano); è così che ho imparato i vari giochi a carte…
Solo assistendo - non chiedevo mai - partecipavo alle loro allegre discussioni, su errori commessi o difesi; ci pensava papà poi, mentre tornavamo a casa, a spiegarmi su mia richiesta, i perché e i perchéno delle varie giocate. Talvolta, quando arrivavamo alla cri, trovavamo seduto all’aria fresca della sera estiva don sigismondo, il parroco del duomo, ricordate?; ci radunava intorno a sé, noi ragazzini, e ci torchiava in aritmetica.
Domande a bruciapelo; ed esigeva risposte rapidissime, sen-za pensare; diceva 1+1, e noi: due; 2+2, e noi: quattro; 4+4, e noi: otto; 8+8, e noi sedici; 16+16, e noi: trentadue… e così via fino a raggiungere cifre che non eravamo più capaci di sommare a mente; una progressione geometrica che mi fu molto utile per la scuola, ricordo. Era una sfida serale ai numeri; era un eser-cizio mentale efficace, costruttivo, utile; che non finiva mai, perché ci salutava con il solito a domani sera, cari ragazzi, e vedremo chi sarà più bravo…

La crocerossa e la mia infanzia; si può dire la mia seconda casa. Squillava il telefono, pronto!, richiesta urgente dell’ambulanza per un trasporto da ospedale a ospedale, subito per favore, grazie. Partivano, due tre per volta, si alternavano; e facevano a gara per fare il servizio. Qualche volta papà decio mi portava; io ero contento, potevo andare in macchina (anche se dietro, seduto sulla barella); questo mi faceva sentire importante. Ad ambulanza vuota, si cantava: aldo altissimi aveva una bella voce; e quando aprivo bocca pure io, si tappava scherzosamente le orecchie, diceva che ero stonato come una campana; e c’erano anche aldo marianelli e marcello tisei, e augusto e gianni de santis, e un certo rubbacori, e il dottor moscini, e nello colagrossi, e tanti altri…
Mia madre era paziente; se il servizio arrivava quando stavamo per avviarci verso casa, magari quando stavamo salutando tutti buona sera, buona notte!, papà decio non mollava, e “nanna” (nanna, era mamma), aspettate qui, che faremo presto! ’na mezz'oretta… (ma non era mai una mezz’oretta, come diceva lui…); e aspettavamo, mamma ancora a parlare con quelli rimasti, noi ancora a giocare a carte o fuori, cogli altri bambini, a correre per piazza dell’erbe.

… qua’ vòta mamma s’arabbiea de bruttu, datu che papà era sempre lu primu a sparì… “te pozzan’ammazza’ a te e la crocerossa… “ ci strillea appressu, e ci ne gghiemmio a casa, essa arabbiata, e nui ammusati…




Marcello de Santis

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