"La Rocca Pia" di A.L.R. Ducros (prima parte)

a cura di Roberto Borgia

La notizia della consegna della Rocca Pia da parte del Demanio al Comune di Tivoli, avvenuta nel mese di dicembre 2018, non può che riempire di gioia tutti i concittadini, considerando che questa fortezza, utilizzata come carcere mandamentale fino al 1962, è pervenuta finalmente nel possesso della città. La parte complessa è ora quella di studiare una fruizione di questo capolavoro del XV secolo, ma siamo certo che la dott.ssa Mariantonietta Tomei, consigliere del Sindaco per i Musei Civici di Tivoli, saprà trovare la soluzione adatta per valorizzare la Rocca stessa. Si arriverebbe ad «una sua più dignitosa destinazione a fini culturali e turistici», come auspicava nel lontano 1968 Renzo Mosti (1924-1997), una delle figure più rappresentative del panorama culturale tiburtino del secolo passato.
Questa magnifica fortificazione fu realizzata a partire dal 1461 per iniziativa di Pio II Piccolomini (pontefice dal 1458 al 1464), da cui il nome di "Pia" o "castello di Pio II". Le due torri maggiori furono inserite nella cerchia delle mura, che circondavano e difendevano la città, mentre le due più piccole sono all'interno delle mura stesse.


Ingrandisce foto Veduta ideale della Rocca Pia

Non sono molte le raffigurazioni della Rocca in affreschi, disegni e tele. Già abbiamo presentato su queste pagine la raffigurazione della costruzione della Rocca nella Camera degli Sposi, nel piano nobile del torrione nord est del castello di San Giorgio a Mantova, cui il pittore Andrea Mantegna (1431-1506) attese, con una certa discontinuità, per circa nove anni (1465-1474).
Presentiamo ora questa "Veduta ideale della Rocca Pia", databile al 1800, penna ed inchiostro di China, acquerello messo in evidenza con guazzo, resti di vernice su carta J. Whatman incollata interamente su tela, cm. 80x125, Musée cantonal des Beaux-Arts, Lausanne.

L'opera è un unicum per il pittore svizzero Abrham-Louis-Rodolphe Ducros, nato a Moudon nel 1748 e morto a Losanna nel 1810. Non viene rappresentato infatti un paesaggio reale, ma l'opera può essere catalogata come un "capriccio", o "veduta ideata" che dalla pittura veneziana, tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento, si configura come un genere vero e proprio, ossia come l'arte di comporre il paesaggio attraverso la libera combinazione di elementi architettonici reali o fantastici, di rovine dell'antichità rielaborate ed accostate tra loro, pur se appartenenti a realtà distanti. Nell'ambito tiburtino ricordiamo solo il tempio di Vesta o della Sibilla (quello rotondo, per intenderci) che è inserito in moltissimi "capricci" o "vedute ideate".

La Rocca Pia è inquadrata tra lo sfondo dei Monti Tiburtini ed il vortice delle acque al bordo dell'opera. Il fiume che scorre non rappresenta però l'Aniene, ma il Tevere nel punto in cui il letto si divide in due davanti all'isola Tiberina. Perciò Ducros inventa un luogo irrazionale al limite del fantastico. Per comporre la sua veduta immaginaria s'ispira a Gaspard van Wittel e allo spirito di Giovanni Battista Piranesi. Del primo utilizza come modello la Veduta dell'isola Tiberina dei Musei Capitolini, soprattutto nella parte sinistra con la scalinata che, posta in primo piano e appunto da un lato, serve a dirigere l'attenzione dello spettatore sul soggetto principale del dipinto. Per Ducros il bisogno di chiudere la composizione è un ricorrere alla vecchia convenzione fiamminga della composizione divisa in due da una violenta diagonale: chiusa verso l'osservatore, aperta in lontananza.

Riprende invece il Piranesi con l'acquaforte dell'Isola Tiberina, presente nella serie delle "Vedute di Roma", per il tema centrale nell'opera e l'armonia drammatica dei toni chiari e scuri. Ma, a differenza dell'artista veneto, le figure in primo piano contribuiscono ad un clima di tranquilla serenità, con la bambina tra due figure femminili. Ritroviamo anche in quest'opera un aspetto caratterizzante l'arte nella seconda metà del XVIII secolo, caro ai paesaggisti che dimostrano uno spiccato interesse per gli effetti di luce nelle diverse ore del giorno e per le variazioni meteorologiche come Pierre-Henri de Valenciennes (1750-1819) e Thomas Jones (1742-1803). Ducros è, egli anche, sensibile a questo aspetto quando confida ad uno dei suoi compatrioti nel 1787 che "il cielo è in un paesaggio ciò che la faccia è in una figura umana; è il cielo che, per le variazioni di luce e di ombra, diffonde in un paesaggio un tono triste o allegro, tetro o sereno, pacifico o agitato, adatto al carattere sotto il quale si vuol rappresentare". Philippe Secretan, Journal de voyage, Biblioteca cantonale ed universitaria, Losanna, ms., fonds PELIS, Is 4350, fol. 61.)

(febbraio 2019)

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