La peste dilaga e i cappuccini soccorrono gli appestati del 1656

Il XVII secolo vide ripresentarsi pestilenze lungo tutta la Penisola. Nel '30 fu la volta di quella che decimò la popolazione di Venezia e di Milano; fu mirabilmente descritta dal Manzoni ne I Promessi Sposi, in quei capitoli drammatici e commoventi che ricordano l'operare nefando dei monatti, lo sfilare dei carri degli appestati, la piccola Cecilia morta, il Lazzaretto... Proprio qui il Manzoni ci fa rincontrare fra Cristoforo, un cappuccino anzi il cappuccino per eccellenza. Erano proprio i cappuccini in prima linea a combattere gli effetti della peste, a portare soccorso agli appestati, a curarli durante la malattia e, se fortunati, durante la convalescenza, a bruciare le masserizie e gli indumenti infetti, ad assisterli nell'ultima ora e a seppellirne i corpi. Un'altra pestilenza scoppiò nel 1656. Iniziata nel Regno di Napoli, l'epidemia ai primi di giugno del 1656 si diffuse anche nello Stato Pontificio ad esso confinante tramite un marinaio napoletano che aveva preso alloggio in una locanda di via di Montefiore, a Trastevere. Ammalatosi, fu portato all'ospedale di San Giovanni ma morì pochi giorni dopo. Il decesso non fu riconosciuto dal medico della Congregazione della Sanità come causato dalla peste nonostante i chiari segni presenti sul corpo dell'appestato. Non venendo messe in atto, per evitare il contagio, le accortezze necessarie a disinfettare la locanda, dove il marinaio aveva alloggiato, il contagio si diffuse.

Chiesa a Roccagiovine
Ingrandisce foto Chiesa di Roccagiovine

L'ostessa con i figli morì una decina di giorni dopo e solo allora si capì che era peste. L'epidemia però era ormai inarrestabile e già aveva contagiato tutto Trastevere. Si pensò di isolare la zona collocando notte tempo delle lunghe cancellate di legno. A sorvegliare che nessuno uscisse da lì o entrasse furono messe delle guardie armate, che avevano l'ordine di sparare a vista. Per ricoverare gli appestati si diede mano ad allestire un lazzaretto all'Isola Tiberina. Furono qui sbarrati gli accessi dei due ponti affinché sull'isola si arrivasse solo con barche.

Queste comunque erano sempre un veicolo di infezione, poiché venivano utilizzate anche per trasportare i cadaveri alla spiaggia (situata presso la basilica di San Paolo) dove venivano seppelliti in fosse comuni. La pestilenza però continuò a divampare per cui a Roma furono istituiti altri quattro lazzaretti: due a San Pancrazio e a Casal Pio V, per la convalescenza degli appestati guariti dopo una prima giacenza all'Isola; un terzo in via Giulia per far sì che i convalescenti si irrobustissero; un quarto al convento di Sant'Eusebio per i sospettati di aver contratto la peste. Chi era a contatto con gli appestati (medici, confessori, guardie, barche, carrette) erano considerati immondi e quindi venivano scansati. Si arrivò a proibire lo svolgersi di cortei, processioni e pubbliche funzioni. Persino le campane furono "azzittite" vietando di suonarle per segnalare lo svolgersi di un qualsiasi rito. Si voleva evitare che i fedeli, a quei rintocchi, si riunissero nelle chiese perchè tutte le occasioni in cui la folla si ammassava erano motivo di contagio. Medici, chirurghi e cerusici furono "invitati"a non lasciare Roma, in caso contrario sarebbero stati uccisi e i loro beni confiscati.

Fontana a Roccagiovine
Ingrandisce foto Fontana a Roccagiovine

La peste a Roma terminò nell'agosto 1657. In quel tempo la città contava 100.000 abitanti. I morti furono 14.473 così distribuiti: 11.373 nella zona della città sulla sinistra del Tevere, 1600 nel Ghetto e 1500 a Trastevere. Ma torniamo un attimo indietro per spendere due parole su quelli che, in prima linea, assistevano gli appestati: i cappuccini. Gli effetti del morbo decimarono non solo la popolazione ma anche i conventi di Roma e dei dintorni. La mancanza di sussidi, la diminuzione del numero dei cappuccini sopravvissuti non fermarono l'impegno che i frati profusero nell'aiutare gli appestati

E' possibile ricostruire la loro infaticabile operosità in quell'occasione grazie a dei documenti storici conservati nel Convento dei Cappuccini a Via Veneto, Roma. Qui è sepolto Padre Mariano (noto al pubblico televisivo di vari anni fa) e ricordato fra l'altro per la sua frase di inizio/ commiato "Pace e bene a tutti", e sempre qui è possibile rintracciare nel loro Archivio Provinciale le notizie su come i cappuccini affrontarono l'emergenza del 1656 specificatamente nel territorio tiburtino e nei paesi limitrofi quali Roccagiovine, Vivaro e Roviano. Dall'archivio si apprende che andarono a Roccagiovine il predicatore cappuccino, padre Felice Romano, (fratello della castellana) e padre Ludovico Romano. Il parroco del luogo era mancato ed i due spesero tutte le loro energie per cercare di assistere spiritualmente e no gli abitanti appestati. Si infettarono e morirono uno dopo l'altro. La peste divampava anche a Roviano. Due cappuccini furono estratti a sorte essendo tutti i frati disposti a sacrificare la propria vita pur di aiutare gli appestati; erano padre Clemente d' Orte e padre Bonaventura da Vercelli. Furono ben accolti dalla popolazione che mancava di tutto, anch'essi non mancarono di spendere tutte le proprie forze morendo appestati. Il predicatore, padre Giovanni da Soresina spontaneamente propose all' Em.mo Prelato, Ill.mo Santa Croce, di sostituirli e fu accontentato. Giunse nel territorio di Vivaro il 17 agosto e morì di peste il 4 settembre.

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