Il vino nell'antica Roma

Le donne romane, che in genere erano abbastanza libere, non potevano assolutamente gustare il frutto di Bacco in quanto questo “diritto” era riservato solo al sesso forte che aveva compiuto i trenta anni di età. Guai alla matrona che aveva segretamente bevuto poiché, se baciata dal coniuge, veniva scoperta e punita severamente per la sua trasgressione.
C’erano chiaramente delle eccezioni: Giulia Augusta (moglie di Augusto dopo Livia la quale sosteneva che grazie al vino aveva raggiunto gli 86 anni), le donne che frequentavano le palestre spesso per ritemprarsi dalle fatiche degli allenamenti lo bevevano a stomaco vuoto o dopo aver mangiato il cosiddetto “cibo dei gladiatori”. Frequenti erano pure le matrone che banchettando si avvicinavano al vino dimostrando di essere buone bevitrici.


Ingrandisce foto Uva da vino

In genere i romani preferivano diluire il vino anziché berlo puro (come invece sosteneva che doveva essere Plinio) e ciò perché in genere, essendo diverse le coppe che dovevano svuotare, abitualmente per restare un po’ più sobri lo allungavano con l’acqua non importa se calda o fredda (tale scelta era dettata dal gusto individuale ma per lo più si preferiva berlo freddo). Chiaramente il vino più ricercato (come è ancora oggi) era quello invecchiato e quindi più forte di gradazione.

Ottimo era considerato quello che sfiorava i tre lustri. Tuttavia spesso il vino veniva manipolato aggiungendo ingredienti non sempre “alimentari”:cloruro di sodio o gesso o profumi (il che lo avrebbe reso particolarmente afrodisiaco)o pece con resine particolari o acqua del mare, o sale, o scaglie di ostriche tritate e talvolta persino della cenere. Il risultato di tali manomissioni erano cefalee, mal di stomaco, vertigini ecc. Si pensava che l’aggiunta di tali sostanze contribuisse a meglio conservare il vino. La sofisticazione per noi più “accettabile” era l’aggiunta di un dolcificante, il miele (lo zucchero non si conosceva), per aumentare la gradazione di un vinello. Tale mistura era chiamata “vinum mulsum”.
A questo proposito si deve dire che, quando si avevano degli ospiti,non si agiva sempre correttamente: il padrone di casa faceva servire dai suoi servi ai commensali vini prelibati all’inizio del convivio per scendere man mano agli scadenti quando ormai essi erano un po’ brilli.


Ingrandisce foto Triclinio

Tuttavia il galateo imponeva di non ubriacarsi (cosa molto difficile), i servi allora somministravano un disgustoso miscuglio ottenuto mettendo insieme mandorle amare tritate, cavolo crudo e polmone di capra. Il malcapitato ospite trangugiando una simile “ bevanda” rimetteva e si liberava in tal modo dell’eccesso di vino e cibo ingerito.

C’era solo una persona “condannata” a non toccare una goccia di vino per tutta la serata: era l’arbiter bibendi (arbitro del bere) o porcillator sorteggiato con i dadi tra tutti i convitati.
Costui era incaricato di stabilire come “allungare il vino”, vale a dire come diluirlo per essere ancora accettabile e nello stesso tempo per far restare desti gli ospiti. In genere si mescolavano dieci parti di acqua e cinque di vino ma ciò non bastava a garantire che la serata terminasse in un collettivo baccanale.
Tra i vini più rinomati vanno ricordati l’Opimiano, il Greco, il famoso Falerno, il Memertino siciliano, il vino di Lesbo, quello di Scio, il Cecubo, il Maroneo (quest’ultimo tanto forte da dover essere diluito più degli altri). Si può dire quindi che la cerchia dei vini non era molto ampia rispetto all’attuale. Chiaramente chi poteva permettersi di bere il vino erano i patrizi poiché i plebei dovevano accontentarsi di bere acqua essendo piuttosto poveri. Il triclinio era la sala da pranzo dove si banchettava languidamente adagiati sui triclini. Fuori pasto i Romani bevevano spesso con la scusa di farlo alla salute di un amico o della propria donna; in quest’ultimo caso svuotavano tante coppe di vino quante erano le lettere costituenti il nome dell’amata. Un bel sacrificio! Poi vi erano altri tipi di bevande ottenute utilizzando del vino; secondo Plinio erano ben duecento. Le varie epoche della civiltà romana furono caratterizzate dall’uso di vini “particolari”. Ad esempio nella Roma arcaica piaceva unire al vino piante aromatiche particolarmente odorose tipo rosmarino, anice, finocchio ecc. Il granum Paradisi (il grano del Paradiso) era invece ottenuto unendo al vino dei chiodi di garofano, del miele, dello zenzero e della cannella. Mettendo del grano nell’acqua e lasciandolo fermentare per qualche tempo ottenevano una specie di birra.
Poi andò di moda l’ippocras: vino, ambra, pepe, mandorle, muschio, susina, zenzero, cannella, chiodi di garofano e fiori di macis. Più tardi ancora anche la pericolosa mandragora (erba velenosa delle Solanacee) fu utilizzata per profumare il vino.
Il commercio di vino rendeva abbastanza bene ai mercanti perché molti erano quelli poco onesti che “tagliavano” il vino buono con altri scadenti; in genere i ricconi non correvano tale rischio perché gustavano vini delle proprie terre. Per filtrare il vino dalle impurità si ricorreva ad utilizzare un panno di lino (saccus vinarius) sul quale si poneva della neve portata a valle dalle vicine montagne. In tal modo il vino diventava fresco e gradevole ma anche risultava anche annacquato.

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