"La cascata di Tivoli" di Paolo Anesi (prima parte)

a cura di Roberto Borgia

Nelle Mostra “Le bellezze di Tivoli nelle immagini e negli scritti del Grand Tour, che rimarrà aperta nel Museo della città di Tivoli in Piazza Campitelli fino al 31 ottobre 2017, sono presenti, per gentile concessione della Galleria 90 di Tivoli, una serie di opere (acqueforti ed olii su tela), che illustrano la situazione della cascata di Tivoli (detta la “Cascata vecchia”), prima che, con i cunicoli gregoriani, il fiume Aniene venisse deviato nel 1835 e fatto passare sotto il Monte Catillo.
Paesaggio spettacolare quello della “Cascata vecchia”, che è stato immortalato in una serie di opere d’arte: è bene sottolineare però che la cascata che si vede in quelle opere ed anche in questa che presentiamo è una cascata nella quale l’uomo era intervenuto di prima mano. I nostri antenati, per fare in modo che il livello del bacino fosse costante e che i canali derivatori che pescavano in questo bacino potessero fornire in maniera regolare l’acqua alla nostra città per mettere in funzione le mole degli opifici, per innaffiare gli orti sotto Tivoli, per ogni quant’altro uso potesse insomma servire un flusso continuo di acqua - non ultimo per il canale d’Este, che arrivando in un bottino per l’acqua posto sopra la fontana dell’Ovato permetteva la messa in funzione delle fontane di Villa d’Este - avevano costruito e rinforzato continuamente nel corso dei secoli un enorme muraglione che trattenesse l’acqua stessa, ma che, come tutti i manufatti umani, era soggetto a distruzioni parziali o totali proprio per la spinta dell’acqua del fiume, che, in caso di maltempo, oltre a forzare enormemente contro il muraglione stesso, trascinava con sé tronchi d’albero ed ogni cosa che strappava dalle rive.


Ingrandisce foto "La cascata di Tivoli"

Mi viene alla mente quanto scrisse, ad esempio, Carlo Fea (1753-1836), commissario alle antichità dello Stato della Chiesa - a proposito dell’alluvione di Tivoli del 16 novembre 1826, che quasi spazzò via la città - nel suo saggio sui resti romani e sui disastri provocati dalle continue manomissioni della cascata (Considerazioni... sul disastro avvenuto in Tivoli..., Roma 1827). Intervenne poi ancora con molti scritti polemici, criticando la ricostruzione del muro atto a contenere la cascata e ancor di più, sul progetto dei cunicoli gregoriani di Clemente Folchi.

Secondo Fea tutti i danni erano stati causati dalla pretesa dei tiburtini per aver voluto, forse nel secolo XII o XIII «fare quella cascata così alta, per avere più alta poca più acqua, mediante dei canali a traverso la città nella ripa sinistra. Rilevai minutamente nella serie di più secoli, in conseguenza della novità, i danni, le rovine, gli spaventi continui occasionati dal fiume, in ispecie colle sue piene, il quale non potendo a un tratto abbattere il muraglione della cascata; ogni tanto rovinava nelle due ripe Chiese, case, giardini ec.: finché minando sordamente a poco a poco la ripa destra dove intestava assai debolmente la chiusa a un greppo tartaroso; si liberò in poche ore strepitosamente da quell’ostacolo, come si è veduto … che in pochi anni non vi resterà la strada di Subiaco», (pag. 23 sg.).
Per fortuna, il progetto di Clemente Folchi fu approvato e se pure la città perse un paesaggio eccezionale, fu salva da future inondazioni.

L’olio su tela di Paolo Anesi (circa 1690-1773), “La cascata di Tivoli”, conosciuto all’estero come “The Aniene Waterfall”, cm. 40,04 x 58,39, appartiene ora ad una collezione privata in quanto è stato aggiudicato a Londra nel 2009 nell’asta Old Master Paintings per la cifra di € 11.371,00 comprensiva di diritto d’asta. Per mancanza di documenti e di notizie, la vita di questo pittore non si può ricostruire con precisione, mentre si può studiare il suo iter artistico attraverso un gruppo di opere, in parte firmate, in parte a lui attribuibili. I temi dei dipinti e delle incisioni, che sono vedute e paesaggi, testimoniano di un’attività svolta prevalentemente nella capitale dello Stato Pontificio, e “romano” egli si qualifica nella dedica delle sue Vedute all’acquaforte del 1725. Ma poiché lo storico d’arte Luigi Lanzi (1732-1810) scrisse che “molti quadri di vedute campestri son per Firenze dipinte da Paolo Anesi e ve n’è copia anche in Roma” e lo ricorda come maestro di Francesco Zuccarelli (1702-1788) prima che questi passasse a Roma (Storia pittorica della Italia, Tomo primo, Bassano, 1795-1796, pag. 270), alcuni pensano che fosse fiorentino piuttosto che romano. In ogni modo trascorse a Roma la maggior parte della vita, dove lavorò come vedutista tanto da essere considerato il maggior pittore romano di questo stile settecentesco. Studiò con Giuseppe Bartolomeo Chiari (1654-1727), in seguito, nella bottega di Bernardino Vincenzo Fergioni (1674-1738).

Meno credibili le frequentazioni delle botteghe di Andrea Locatelli (1695-1741), anche se questo potrebbe spiegare la sua opera di vedutista, e Sebastiano Conca (1680-1764). Influenzato dal gruppo di pittori detti bamboccianti abbandonò lo stile bizzarro di questi pittori del Seicento per una visione più arcadica e settecentesca, come in questa tela: il paesaggio ricorda van Wittel (1652/1653-1736), ma è notevole l’evidenza dell’aspetto bozzettistico. Molti suoi paesaggi furono comprati da stranieri, per la maggior parte inglesi, che amarono questa tipologia di stile dal Canaletto (1697-1768) al citato Francesco Zuccarelli.
Da sottolineare che nel Grand Tour molti pittori italiani trovarono fortuna presso i collezionisti stranieri in particolare coloro che dipingevano quadri di piccole dimensioni facilmente trasportabili. I suoi “Capricci” con rovine del Foro romano ricordano da vicino i medesimi soggetti del più conosciuto Giovanni Paolo Pannini.

giugno 2017

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