Bartolomeo Pinelli (Roma, 20 novembre 1781 – Roma, 1º aprile 1835) è certamente il più noto incisore italiano, insieme a Giovan Battista Piranesi. Artista grafico estremamente prolifico, è stato recentemente stimato che abbia prodotto circa quattromila incisioni e diecimila disegni. Nelle sue stampe ha illustrato i costumi dei popoli italiani, i grandi capolavori della letteratura: Virgilio, Dante, Tasso, Ariosto, Cervantes, Manzoni, e soggetti della storia romana, greca, napoleonica ecc. In generale non esiste tema che non abbia trattato. I temi in generale più ricorrenti sono però Roma, i suoi abitanti, i suoi monumenti, la città antica e quella a lui contemporanea. La sua opera di illustratore possiede, oltre all’intrinseco valore artistico, un rilevante significato documentario per l’etnografia di Roma e dell’Italia.
Di questo artista romano presentiamo l’acquaforte, con coloritura coeva, “La vendemmia”, 1809, dalla “Raccolta di cinquanta costumi pittoreschi incisi all’acqua forte da Bartolomeo Pinelli Romano in Roma”, Roma, 1809. L’incisione è firmata in basso a sinistra entro l’acquaforte “Pinelli Fece 1809 Roma”. Le uve ed i vini di Tivoli erano certamente famosi fin dall’antichità.
Il poeta Orazio nei suoi carmi, dopo aver ricordato a Varo che, preso in modeste quantità, il vino suscita allegria, mentre, assunto in quantità smodate, suscita rissosità, dice espressamente: “O Varo, non seminerai nessun albero prima della sacra vite / nel mite suolo di Tivoli e presso le mura di Catillo”. Lo stesso Galeno elogia i vini tiburtini.
Ancora il medico Andrea Bacci tesse un elogio di Tivoli nel suo libro sui vini d’Italia del 1596: “In primo luogo per l’aria salubre e feconda; infatti si dispone tra monti ininterrotti sulla destra, fino in Sabina, a sinistra per ampio spazio verso la campagna laziale e modestamente verso sud, nel bel mezzo dei quali vedrai l’antica Tivoli a ovest, quasi su un alto palcoscenico davanti a tutto il Lazio sovrasta Roma fino a quindici miglia, attraverso le quali il fiume Aniene, scendendo sullo stesso colle, dalle montagne Aprutine da una splendida valle in più rivi formando cascate nella discesa, in un modo che Strabone chiama cataratte come quelle del Nilo … irriga la città e si disperde su tutto il colle per gli usi opportuni e poi per gli orti e i vigneti della pianura sottostante. Scorre quindi fino al Tevere vicino Roma e alimenta con la sua perenne corrente alberi da frutto in lunga schiera e frutteti di fecondità incomparabile. Per posizione è elevato solo su entrambi i lati, declive verso ovest, che è zona mista di roccia e tufo, fertilissima per ogni tipo di coltura, soprattutto per l’olio che questo territorio produce in tanto grande abbondanza in modo che, grazie a questa fecondità della natura, senza dubbio si riduce l’attività degli uomini tiburtini, al punto che non si curano troppo né dell’estetica dei fabbricati né della coltivazione delle vigne, fornite in grande abbondanza dalla natura stessa”.
Qualche decennio dopo il medico tiburtino Tommaso Neri, nel 1622, ci ricorda il motto popolare “Bacco ama i colli”. Da notare un particolare dell’incisione nel lato sinistro in alto: il tempio quadrangolare dell’acropoli (ancora utilizzato all’epoca come chiesa di San Giorgio, della quale viene illustrato anche il campanile) viene riprodotto frontalmente e ciò si può spiegare con il desiderio dell’artista romano di evidenziare i due templi dell’acropoli nella maniera più didascalica possibile, facendo uno strappo alla prospettiva che si vedeva dal basso. Ben evidenziata anche la torre di S, Caterina al Riserraglio e la cosiddetta Villa di Mecenate con le sue cascatelle. Ricordiamo che per lungo tempo per quest’ultimo complesso rimase l’indicazione come “Villa di Mecenate”, nonostante Antonio Nibby già nel 1837 avesse indicato definitivamente il complesso come Santuario dedicato ad Ercole
Scriveva ancora Antonio Nibby nel 1825: «Dopo avere lasciato le prime Cascatelle, per la medesima strada di Quintiliolo, si discende sulle rive dell’Aniene, onde godere lo spettacolo delle seconde, che sgorgano dalle imponenti sostruzioni che reggevano la villa di Mecenate. Se il personaggio, al quale questa villa appartenne non fosse per se stesso assai celebre, e meno maestose ne fossero le rovine, le poesie immortali di Orazio sole basterebbero a farne uno de’ luoghi più importanti de’ contorni di Roma. La villa sorgeva sulla estremità del colle tiburtino, verso la pianura di Roma: in fondo ad una immensa area rettilinea fiancheggiata da magnifici portici arcuati di ordine dorico, un lato de’ quali rimane ancora presso che intiero, innalzavasi il palagio di Mecenate ornato di colonne di ordine jonico, l’ultima delle quali traslocata in un luogo adiacente, crollò negli anni scorsi. Verso Roma una magnifica gradinata semicircolare formava una specie di teatro, dal quale godevasi una veduta estesissima. Dopo la sua morte cadde in potere di Augusto suo erede, insieme con tutti gli altri beni di quell’illustre personaggio, onde fu detta pure villa di Augusto».
(novembre 2025)
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